22 gennaio 2014

QUANDO TE NE ANDRAI DA QUI di Annamaria Manzoni

“Hai solo cinque anni”- dice  Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di continuo alla tua morte.”  E lui ribatte ”Con tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua, giocare con i gatti,  cacciare le lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e asseconda il vento.  Svuotato l’io, sarai pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio:  ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il tempo  che lui ci porta, restando in compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo,  la morte arriva di sicuro.

Il tema della propria morte e di quella delle persone che si amano disorienta da sempre l’umanità: è un nemico, un’intrusione che induce all’elaborazione di filosofie e religioni in grado di dare un senso alla limitatezza del tempo, così poco consona all’infinitezza dei nostri pensieri, dei nostri progetti, del nostro IO smisurato,  e anzi di fare per noi qualche cosa di più, quando ci assicurano che possiamo stare tranquilli, non è così, si fa per finta e dopo, in un modo o nell’altro, con o senza corpo, nel nostro o in quello altrui,  si risorge e si  ricomincia a vivere.

La morte di  un animale che amiamo (ed è inevitabile riferirsi soprattutto, anche se non solo, a quelli con cui la relazione è particolarmente ricca e articolata, cani o gatti in primo luogo) e con cui abbiamo condiviso segmenti più o meno lunghi di vita,  pone davanti ad un enigma ancora diverso, che devia parzialmente dalle argomentazioni che ci sforziamo di adattare alla  nostra realtà di umani. E’ il momento finale di una storia particolare, storia che, nello stupore di una continua scoperta,  è in grado di illuminare tante zone di noi stessi in una dinamica di rispecchiamento, forse reciproco, che  ci mette a contatto con un modo di vivere diverso, e non solo  perché i comportamenti degli animali sono lontani dai nostri, in funzione della specie di appartenenza. La diversità è anche di altro tipo, più misteriosa ed essenziale: noi umani ci muoviamo lungo una direzione tesa verso il cambiamento, la crescita (e la decrescita!), la trasformazione; loro, gli animali in un percorso circolare, che li induce alla ripetizione degli stessi atti, senza la ricerca di un senso o di un obiettivo che trascenda le cose di oggi. Eterni bambini, per tutta la vita amano rincorrere una pallina, meglio se sempre la stessa, gioiscono senza appannamenti annoiati al primo segnale della passeggiata, reagiscono con invariata impazienza all’arrivo  della zuppa. E noi, loro compagni umani, finiamo per provare una sorta di gioia riflessa,  di infantile soddisfazione nell’essere artefici con così poco di così tanta contentezza, e ci ritroviamo senza nemmeno accorgercene con l’increspatura di un  sorriso sulle labbra a rendere un po’ più plateali i nostri gesti per assicurarci che lo spettacolo non venga meno.  E intanto assorbiamo inconsapevolmente un po’ di quella  particolare filosofia dell’animale, tutto immerso in un presente il cui orizzonte temporale sembra spostato solo di minuscole porzioni di tempo, ma che poi incredibilmente è in grado di dilatarsi in funzione delle  inspiegabili assenze  del  compagno umano. L’orizzonte diventa allora quello del suo ritorno, di solito piacevolmente prevedibile tanto da  permettere una propria precisa organizzazione nella preparazione dei festeggiamenti quotidiani, ma altre volte, e non si capisce mai quando né perchè, dilazionato di giorni, settimane,  mesi, addirittura anni: eccoli allora il cane, il gatto, prima immersi in un qui ed ora totalizzanti, trasformare il tempo in attesa e modificare  le coordinate dei propri movimenti. Per poi ricominciare, tutto come prima.
Non possiamo per nostra infinita limitatezza, entrare nei pensieri dei nostri animali e conoscere di cosa siano popolati se non sulla base di  suggestive ipotesi; di certo diverte e commuove insieme  il vederli con aria compunta  prendere tanto sul serio il compito di inseguire una mosca, oppure incrociare il loro sguardo, che si è fissato, da sotto in su, nei nostri occhi in attesa della conferma di avere ben capito il segnale implicito nei nostri gesti. E ci ritroviamo a giocare con loro, in un’esperienza liberatoria che conserva il sapore dei tempi dell’infanzia. Facile, a portata di mano, l’illusione che nulla cambi; ma dietro l’angolo c’è la consapevolezza, intrisa di angoscia, della realtà del tempo che passa e che porta con sé, inevitabile, il pensiero della morte. Rispetto alla quale, per dirla con Woody Allen, ci ostiniamo a non cambiare idea: restiamo fermamente contrari.
La paura di perdere chi amiamo è cattiva musica di sottofondo nella nostra coscienza, non ci abbandona a fare inizio dalla prima esperienza di perdita che viviamo, e forse da prima ancora, tramandata dalla memoria di chi ci ha preceduto: possiamo se mai controllarla e  un po’ rimuoverla, mai cancellarla  del tutto e impedirle, a volte, di assumere forma  nei nostri incubi. La morte  del nostro cane, del nostro gatto ci è più vicina, in questa ineludibile evenienza delle amicizie interspecifiche in cui  i tempi non combaciano : se nessuno di noi sa  a quanto ammonta, nel walzer delle statistiche, la quota personale di tempo rimasto, ben sappiamo che per legge di natura siamo più longevi di loro e  la possibilità di perderli, prima o poi,  è altamente probabile.
A volte la morte  arriva all’improvviso, altre volte preannunciata da lunga o breve malattia: comunque sia, l’esperienza è devastante qualunque sia lo stato o l’età di chi resta e di chi se ne va. Quando è possibile vivere l’agonia, a rendere la cosa intollerabile è forse il silenzio degli animali, la loro quieta attesa e sopportazione dalla quale tentiamo inutilmente di strappare un segnale che ci permetta di capire qualche cosa di più: forse mai come in questo momento la parola che gli manca sarebbe necessaria: vorremmo che fosse lui a dircela quella parola, quella che consola; il silenzio è insopportabile, come lo è lo sguardo che si spegne senza ribellione. A cosa aggrapparci? Che cosa fare per fargli capire quanto lo amiamo e quanto la nostra vita è stata diversa perché c’era lui ? Basteranno le nostre carezze per consolarlo, per non fargli sentire la paura, o forse la paura è solo nostra, forse lui è più capace  e, come ha accettato la vita per quella che era, magari è anche in grado di fare altrettanto con la morte, ineluttabile e naturale in quella natura che sembra così poco interessata alle vicende individuali. Quando nell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” Karenin, il cane che è stato il compagno di  Tereza, e l’ha amata come nessun altro individuo ha saputo fare,  sta per andarsene, la guarda con uno sguardo in cui lei vede una terribile insostenibile fiducia. “Quello sguardo era un’avida domanda: per tutta la vita Karenin aveva aspettato la risposta di Tereza e adesso le faceva sapere che era sempre pronto a sapere da lei la verità. Lui non pensava che a lei. Non aveva paura”. E quando la morte sarà sopraggiunta, Tereza metterà nella fossa in cui depone il suo corpo  il collare, il guinzaglio e la cioccolata: senza pensieri sull’al di là, nell’eco di tante culture antiche in cui chi resta si prende  cura di chi se ne va con i pochi gesti di amore ancora possibili, non importa quanto inutili: così non ti mancherà nulla di quello che ti può servire: sei pronto per la passeggiata, che ti piace tanto, e  il guinzaglio mi assicura che non ti allontanerai troppo, è così non è vero? Non ti allontanerai troppo per andare dove io non posso raggiungerti, adesso.   
Ci sono momenti in cui lo spazio razionale della nostra mente si restringe, invaso  da quello emotivo. Il bisogno di sapere, ma forse solo di potersi illudere ben sapendo che di illusione si tratta, che non tutto finisce qui diventa allora potente: non sono molte le teorie a cui appellarsi: per molti  la vita è strettamente connessa alla biologia e la morte dissipa tutto. Per chi, allungando lo sguardo, si è convinto di vedere vita nell’aldi là, il dilemma se la resurrezione contemplerà anche quella degli altri animali,  un po’ faticosamente trova, tra le dichiarazioni di chi detiene il potere dei pensieri,  qualche esternazione ad hoc: tra gli antichi greci, Pitagora , Anassagora, Platone parlavano di un’anima immortale anche negli animali e in fondo anche il cattolicesimo, a voler ben cercare, non impedisce di sostenere, insieme a Giovanni Paolo II, che il soffio divino è presente anche negli animali. E comunque non fa niente, non sono le teorie o le autorizzazioni quelle che servono: è la ricerca di un modo che consenta di accettare una separazione che non vogliamo sia per sempre. E così l’astrofisica Margherita Hack, che pure vede nell’al di là solo lo sparpagliamento delle molecole che formano il nostro corpo e niente più, affida al paradiso in cui credeva da bambina, e non importa se non ci crede più,  la custodia di tutti gli animali amati nella sua vita per poterli lì ritrovare. Mentre il teologo Paolo De Benedetti, pur convinto che nelle pieghe dei testi sacri ci sia la conferma che di  certo i nostri animali li ritroveremo un giorno, non si consola della morte della sua gatta Dovesei e si arrabbia con Dio, ammonendolo che “forse questo potevi risparmiarcelo ancora un po’” chiedendogli poi, risarcimento al dolore inferto, di conservare l’anima piccolina di Dovesei e intanto consolare chi resta, se può. Per poi dover concludere  che però  “forse tu non puoi, perché la morte è troppo anche per te”(Teologia degli animali). Beh, se la morte è troppo anche per Dio, come pensare che possa essere impresa facile per noi, mortali per ineludibile destino?
Gli animali che amiamo, con la loro, chiudono una vita che si è intrecciata visceralmente alla nostra, ma correndo ad una velocità diversa, lasciandoci un po’ spettatori di ciò che su di loro è successo tanto in fretta, specchio deformato di ciò che a noi sta succedendo: tutto è cominciato così da poco…. sembra ieri…. non sono pronto….e vedere il ciclo della vita  che si dipana e finisce è esperienza che non so tollerare.
Ma una dolcezza diversa può sopravvenire ad avvolgere chi resta, perchè se l’augurio più bello per chi se ne va è , come diceva il poeta Mutis Alvaro, di essere accolto dalla morte intatto non nel  suo corpo, che non è possibile, ma nei suoi sogni, loro, gli animali molto più di noi  sono in grado di andarsene con lo stesso sguardo stupito sulle cose e la totale ostinazione di un legame, restato incontaminato, nonostante tutto.




Annamaria Manzoni

http://annamariamanzoni.blogspot.it/2013/12/quando-te-ne-andrai-da-qui.html